Che cos’è il rooming-in?
Con termine rooming-in nell’ambito medico si indica una particolare ‘organizzazione ospedaliera per cui il neonato, subito dopo il parto, viene tenuto nella stessa camera della madre anziché in una stanza in comune con gli altri neonati’ (Devoto-Oli 2023 on line, il solo dizionario che la registra, con datazione generica al sec. XX). È un modello nato dapprima negli Stati Uniti (le prime attestazioni in lingua inglese risalgono al 1943, cfr. Oxford English Dictionary) e poi adottato anche in altre parti del mondo, tra cui l’Italia (in base ad alcune attestazioni su riviste mediche consultabili su Google la parola farebbe il suo ingresso intorno agli anni Settanta del Novecento), su raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dell’UNICEF.
Nel 1991 i due enti hanno infatti lanciato un’iniziativa intitolata Baby-friendly Hospital Initiative (sigla BFHI) [trad. “Iniziativa per un ospedale attento alla salute dei bambini”] per motivare le strutture sanitarie specializzate in maternità e in neonatologia (specializzazione pediatrica per la terapia medica dei neonati) ad attuare una serie di misure attente alla salute delle partorienti e dei nascituri. Tra queste rientrano i cosiddetti “Dieci passi per un allattamento al seno di successo” (qui il documento) e il settimo punto è dedicato nella fattispecie al rooming-in:
- Enable mothers and their infants to remain together and to practice rooming-in 24 hours a day (trad. “Consentire alle madri e ai loro bambini di stare insieme e di praticare il rooming-in 24 ore al giorno”).
Immagine ufficiale dell’OMS (link)
[trad. “[scritta centrale] Gli ospedali aiutano le madri ad allattare… [scritta sulla sinistra] lasciando che madri e bambini stiano insieme giorno e notte [scritta sulla destra] assicurandosi che le madri di bambini malati possano stare vicino a loro]
Sulla carta il rooming-in rientra tra le buone pratiche per un efficace allattamento al seno perché offre numerosi benefici, tra cui il rispetto dei ritmi fisiologici del neonato (ossia quelli del sonno e della veglia) e il rafforzamento del legame madre-figlio. Tale servizio evita infatti un distacco prolungato del nascituro dalla madre (prima i neonati erano affidati alla struttura del nido, a cui le madri potevano accedere soltanto in determinati orari, leggi qui per un approfondimento).
In Italia il rooming-in non è obbligatorio e può essere attuato soltanto se la donna, dopo il parto, è nelle condizioni fisiche e psicologiche di prendersi cura del nascituro. A tal proposito, oltre all’assistenza del personale sanitario, alcuni ospedali prevedono la presenza dell’altro genitore o di un’altra persona di fiducia che dia ulteriore assistenza (in questi ultimi anni a causa della pandemia ciò non è stato sempre possibile).
Dal punto di vista linguistico
In inglese il sostantivo è formato dal nome rooming ‘occupazione o condivisione di una stanza’ (derivato dal verbo to room ‘occupare o condividere una stanza’, riconducibile a room ‘stanza’) e dall’avverbio in (in genere usato per esprimere un movimento o una vicinanza). È, invece, più tardo – in quanto derivato proprio da rooming-in – il verbo to room in ‘condividere una stanza di ospedale’.
In italiano il termine rooming-in rappresenta un tecnicismo medico, ossia una parola che si riferisce univocamente a un concetto del linguaggio settoriale a cui appartiene e che pertanto non può essere sostituita da sinonimi (se non da parole generiche o giri di parole). Come già detto, esso costituisce uno dei tanti anglismi (più precisamente un americanismo) entrati nella nostra lingua senza adattamenti o calchi (per rimanere nell’ambito medico e sanitario si pensi soltanto ai casi di check-up, day hospital, screening ecc.; cfr. Serianni 2005; se, invece, si cercano altre parole formate da room il Devoto-Oli 2023 on line riporta anche room service ‘servizio in camera’).
In italiano è entrato come sostantivo maschile invariabile già a partire dagli anni Sessanta del Novecento:
Quelli del «rooming in» venivano anch’essi in contatto con l’ambiente e con il personale della nursery dove venivano portati periodicamente per pulizie varie e visite pediatriche (dalla rivista Annali Sclavo, VIII, 1966, p. 780)
Alcuni AA. come Colbeck [2] hanno addirittura riproposto come migliore soluzione per la prevenzione delle infezioni nei neonati quella del rooming in, vale a dire la sistemazione del neonato nella camera della madre (dalla rivista Annali dell’Istituto superiore di sanità, XIII, 1977, p. 671)
Le attestazioni più recenti, invece, non sono confinate al solo ambito medico, ma anche a quella “letteratura per la maternità”:
Se ha la fortuna di aver partorito in un ospedale dove è adottata la formula rooming-in, nell’arco di poco tempo avrà la bellissima sorpresa di vedere entrare la puericultrice con il bambino adagiato nella sua culla a ruote (Laura De Laurentiis, Il grande libro italiano del bambino, Milano, Rizzoli, 2011, p. 11)
A quanto mi risulta, non sono attestate alternative concorrenti in italiano (si potrebbe pensare a neonato-in-stanza, se vogliamo mantenere il sostantivo stanza, o a vicinanza post partum, se vogliamo usare il latino e dare un effetto più tecnico, o ancora ad altre polirematiche come compresenza mamma-neonato, sulla base di spiegazioni che si leggono in rete) e questo favorisce il sostanziale acclimatamento del sostantivo inglese all’interno della nostra lingua (e quindi nella lessicografia). Anche in relazione al tragico episodio accaduto a inizio gennaio all’ospedale Pertini di Roma (qui la notizia) è stato utilizzato da parte dei giornalisti il termine rooming-in (il sostantivo ha subito un’impennata sui quotidiani proprio a inizio gennaio 2023), in cui è stato messo in relazione a tematiche importanti per la salute della donna, che dopo il parto non può essere lasciata priva di assistenza:
Molto più di 100mila firme in meno di 24 ore per la petizione online contro la violenza ostetrica lanciata su Change.org dall’Associazione “Mama Chat” e intitolata “Basta morti inutili e mamme sole! Chiediamo di garantire accompagnatori H24 alla nascita”. Mentre dalle principali società e associazioni che raccolgono i medici arriva l’invito a non demonizzare il rooming-in («La Repubblica», 25/1/2023)
Così, questa parola del mese da una parte ci consente di riflettere tramite la lente del linguista sull’abuso dei termini inglesi nella nostra lingua (compreso l’àmbito medico), dall’altra ci offre l’occasione di ricordare il piccolo Carlo Mattia. Speriamo che la nostra riflessione possa diffondere maggiore consapevolezza e attenzione sulle modalità con cui negli ospedali viene adottata questa pratica, potenzialmente benefica per la madre e per il bambino, ma che può comportare dei rischi che vanno assolutamente evitati.
Crediti immagine: Adytia Romansa
Kevin De Vecchis