Un ragazzo in felpa in una stanza buia e disordinata, illuminata dalla luce blu di uno schermo su cui scorrono immagini rapide e frenetiche di un gioco sparatutto. Questa breve descrizione è quello che spesso viene in mente appena sentiamo nominare la parola hikikomori. Ma quanto di tutto ciò è vero?
Per rispondere alla domanda è bene partire, appunto, dalla parola stessa. Come è facile intuire Hikikomori è una parola che è stata “importata” in Italia dalla lingua giapponese. In origine il termine non era un sostantivo ma un verbo, hikikomoru, creato dall’unione di due concetti in un’unica parola: [Hiku] ovvero “tirarsi indietro” e [Komoru] “isolare sé stessi”. Si tratta di un verbo composto che indica chi si è ritirato o ha lasciato un gruppo, spesso riferito al contesto scolastico o lavorativo, per un periodo di tempo prolungato (giorni, settimane o mesi), rifugiandosi nella propria abitazione. Questa particolare forma di ritiro sociale non ha origini moderne o legate al mondo delle nuove tecnologie; in Giappone, infatti, i primi casi vengono riscontrati già alla fine degli anni ’70, quando ancora non esisteva il sostantivo che oggi utilizziamo. Per giungere a questo termine, si dovrà attendere fino alla metà degli anni ’90 quando lo psichiatra Tamaki Saito definì l’hikikomori come «Una condizione (…) che riguarda coloro che si rinchiudono nella propria casa e non partecipano alla vita sociale per almeno sei mesi, ma che non sembrano soffrire di altri problemi psicologici preesistenti». Nel contesto occidentale, tale parola si affermerà solo intorno al 2010, momento in cui troverà una collocazione anche nell’Oxford Dictionary, sancendo formalmente l’introduzione di tale significato fuori del contesto giapponese.
Questo fenomeno è tutt’altro che lontano dal contesto italiano e secondo recenti indagini, nel 2022, quasi il 22% degli studenti afferma di essersi isolato senza andare a scuola o vedere nessuno per un periodo di tempo che va da una settimana a più di 6 mesi. Seguendo quanto prima affermato da Saito è essenziale specificare che solo il 2,2% degli studenti si è ritirato per più di 6 mesi mentre altrettanti lo hanno fatto per un periodo che va tra i 3 e 6 mesi, condizione che viene classificata come pre-hikikomori. Rispetto all’anno precedente, il 2021, gli hikikomori sono saliti dal 1,7% al 2,2%, mentre la condizione di pre-hikikomori si è ridotta (nel 2021 erano il 2,6%); se nel complesso gli studenti ritirati sono rimasti pressoché invariati in termini numerici è aumentata la gravità con cui si manifesta il fenomeno. A differenza di quanto viene comunemente pensato, l’aver subito episodi di bullismo non è fra le cause più frequenti del ritiro sociale mentre lo sono i problemi relazionali con gli amici o con il partner, dai quali l’hikikomori non si sente capito o da cui si sente escluso; si è quindi di fronte ad un forte sentimento di vergogna sociale nei confronti dei propri pari e ad un senso di inadeguatezza prestazionale rispetto alle richieste del contesto.
Nonostante la diffusione del fenomeno la condizione di ritiro sociale non è ancora formalmente riconosciuta come una sindrome specifica all’interno del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – Fifth edition (DSM-5). In termini diagnostici e di trattamento, la mancanza di criteri universalmente accettati pone un forte problema nell’identificare gli hikikomori in quanto questa condizione presenta delle caratteristiche riscontrabili anche in altre problematiche. Per questo motivo, al fine di giungere alla corretta identificazione del problema si porrebbe la necessità di escludere le altre patologie psichiatriche (schizofrenia, disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e disturbi di personalità) dalla condizione del soggetto, tuttavia questo requisito non trova una facile applicazione in quanto, solitamente, il ritiro sociale si presenta in condizioni di comorbidità, spesso proprio con le patologie sopra elencate.
Cercando di porre rimedio a questa situazione si sono affermati, pur non ufficialmente, tre criteri fondamentali per diagnosticare la condizione di hikikomori:
- L’isolamento nella propria abitazione
- La durata dell’isolamento deve essere di almeno 6 mesi consecutivi
- Sviluppo di un disagio associato all’isolamento sociale
Per quanto concerne questi criteri è necessario effettuare alcune specificazioni. In merito al primo criterio viene considerato hikikomori la persona che lasci la propria abitazione per comprare beni necessari (attività solitamente svolta in orari serali, in cui i negozi sono poco frequentati o affidata ai servizi di delivery) ma anche la persona che “esca regolarmente” (al massimo 2 o 3 giorni a settimana), ovviamente in questo secondo caso la gravità del problema è definita più leggera rispetto al precedente esempio. Il terzo criterio merita una particolare attenzione in quanto, solitamente, nelle prime fasi dell’isolamento l’hikikomori prova un forte senso di sollievo, allontanandosi dai fattori stressanti e dalle aspettative connesse ai contesti e le relazioni sociali, ponendo un evidente contrasto con quanto affermato dal criterio; tuttavia, nel corso del tempo, tale sensazione ed emozione si trasforma e si sostituisce con un crescente senso di solitudine (occasionalmente legato ad apatia e tristezza).
Se questo fenomeno pone le sue origini in un momento precedente alla nascita di Internet, dei social e dei videogiochi è innegabile che l’arrivo di queste tecnologie ha reso la problematica più acuta o quantomeno ha fornito degli strumenti capaci di rendere “più facile e confortevole” l’isolamento dell’individuo. La creazione di molteplici modalità di relazioni non sincrone e\o non faccia a faccia ha sicuramente posto un “rallentamento” al fenomeno appena descritto, ovvero al passaggio da sollievo a solitudine, ed ha inoltre posto un importante punto di svolta nella definizione dei criteri sovra citati, introducendo la distinzione tra relazioni fisiche (in real) e on-line e dovendone eviscerare maggiormente sia aspetti positivi che negativi. D’altro canto è giusto sottolineare che questi strumenti hanno permesso di creare un canale con chi si trova “dall’altra parte dello schermo” che, se saputo sfruttare in modo corretto, può essere un punto di aggancio e di intercettazione essenziale.
La mancanza di criteri diagnostici e di un riconoscimento universale della problematica si rispecchia anche in una mancanza, nel panorama nazionale, di normative e ordinamenti specifici che inquadrino in modo chiaro il fenomeno e prevedano deroghe (scolastiche o lavorative) o percorsi di trattamento. Il privato sociale e alcuni servizi pubblici hanno sviluppato una serie di interventi e supporti per queste situazioni, tuttavia queste iniziative sono lasciate alla “buona volontà” dei singoli enti e non prevedono un intervento uniforme neanche sul territorio regionale. Per quanto possa risultare evidente che una collaborazione strutturata tra scuola, famiglie e servizi socio-sanitari pubblici e del privato sociale sarebbe fondamentale per intercettare il fenomeno precocemente, nonché per garantire il necessario supporto (nelle sue varie forme) a chi decide di ritirarsi, ancora manca una solida base di riferimento in termini legali, diagnostici e sociali. Onde porre rimedio almeno al primo vulnus, è stato proposto di considerare la legge 104 del 1992, sulla tutela e la dignità delle persone portatrici di handicap, e la legge 107 del 2015, di contrasto alla dispersione scolastica, come “cornici” in cui inserire delle specifiche delibere volte a favorire l’emersione e il riconoscimento del fenomeno, intento che ancora non ha trovato una messa a terra.
In conclusione, tornando anche alla domanda iniziale, l’immagine stereotipata dell’hikikomori che si rinchiude a casa a giocare ai videogiochi non solo è un appiattimento di realtà ben più complesse, ma confonde fenomeni che anche in termini diagnostici sono differenti. La dipendenza da social network o da videogiochi, anche esse non ancora inserite a pieno titolo nel DSM-5 ma presenti in appendice, hanno percorsi e criteri diagnostici differenti e, per quanto gli strumenti digitali siano indissolubilmente legati agli hikikomori (come specificato in precedenza), appiattire dipendenza e ritiro sociale in un unico piano non fa che creare un’interpretazione sbagliata di entrambi i fenomeni, strizza l’occhio ad un’ottica che colpevolizza la vittima ma soprattutto sposta il focus dell’attenzione sugli strumenti, i mezzi e non guarda all’origine del problema. Come specificato anche dai risultati delle ricerche, quando si affronta questo tema, è essenziale considerare per prima cosa il malessere di una persona nel vivere le relazioni con i pari e le aspettative di un contesto sociale che lo circonda e, in un certo qual modo, lo schiaccia; si tratta quindi di avere una prospettiva multidisciplinare, ampia ma soprattutto profonda, che sappia vedere oltre il riflesso dello schermo blu negli occhi del ragazzo.
di Alessio Arces – Federsanità ANCI Toscana
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